"Esercizi di distruzione"
Note a margine di “ROMÆTERNA. Violazioni Capitali”
a cura di Giorgio de Finis
"Oltre alle singolari motivazioni che hanno spinto gli autori a realizzare le opere in mostra, vi sono almeno quattro ragioni (o ragionamenti) che mi sembrano interessanti per accendere un focus sulla parola “distruzione” in relazione alla città e all’architettura.
La prima è evidente, e ha a che fare con il bombardamento mediatico che giorno dopo giorno fa da specchio a quello reale di chi vive in città ridotte a cumuli di macerie, immagini con le quali entriamo in empatia, ma che molto spesso generano apatia, normalizzando un dato che normale non è; vale a dire che le guerre e i conflitti si combattono oggi negli spazi urbani, interessando la popolazione civile prima che gli eserciti. Questo dato richiede a mio avviso una riflessione da parte di coloro che sul fronte della ricerca si occupano di città, e più in generale di chi ha a cuore il diritto internazionale e i diritti umani. C’è, non dimentichiamolo, anche un tema strettamente legato alla distruzione che riguarda la ricostruzione, e dunque in qualche modo l’architettura; distruzione e ricostruzione sono pianificate a tavolino prima ancora che il conflitto abbia luogo.
Il secondo punto che vorrei discutere può sembrare più una questione di lana caprina ed è la seguente: se non sia semplicistico dire che l’architettura è una disciplina che si dedica al costruire, visto che ha ben radicati nel proprio dna due miti fondativi che riportano letteralmente la città al ground zero: Atlantide e Babele. Ne abbiamo discusso in passato proprio con Purini, Baglivo e Prati, pubblicando un volumetto interessante. Nel caso di Babele dio punisce l’atto di hybris degli umani e il loro tentativo di scalata al cielo con il crollo della Torre e la confusione degli idiomi. Il mito di Atlantide, così come riportato da Platone, è più interessante, perché è Poseidone a costruire la città (letteralmente con le proprie mani) per proteggere, oggi diremmo imprigionare, con muraglie e fossati l’amata Clio, tenuta lontano da eventuali pretendenti cospecifici. Gli uomini lasciati fuori della porta rientrano però dalla finestra, in veste di progenie, che generazione dopo generazione abitando la città si arrogheranno il diritto di “abbellirla” modificandone la forma originaria, quella appunto disegnata dal dio. La distruzione della città terrena si manifesta quando si viola la forma di quella celeste. La città concepita dal primo costruttore, dio o architetto che sia, non può che degradarsi quando viene consegnata a chi la abita? La domanda che mi viene da porre è quanto l’architetto sia ancora legato al sogno utopico di una città che può disegnare e controllare.
La terza riflessione ha a che vedere con Roma, la città “eterna”. Eterna è già di per sé un aggettivo che la collocherebbe fuori da una temporalità propria delle cose umane e che, in barba alla storia millenaria di cui serba traccia nelle sue stratificazioni, sembra voler intimorire chi abbia in serbo il cambiamento. Neanche chi progetta di traghettarla nel futuro per il tramite dei grandi eventi globali può evitare di ribadirne la natura imperitura (il claim scelto per la candidatura di Roma per Expo 2030 è “eternal evolution”). Cosa vuol dire per l’architetto e l’urbanista avere a che fare con Roma?
L’ultima questione che vorrei affrontare è la scelta di operare con gli strumenti del disegno, che potrebbe, se letta in negativo, apparire come la risposta “debole” alle impossibilità di cui sopra (impossibilità di governare la crescita della città con un piano, impossibilità di cambiare Roma). Abbiamo scelto esercizi di “distruzione” espliciti (così chiama Purini i suoi progetti del 1991) o in qualche modo riconducibili all’azione del cancellare proprio perché ci aiutano a ricordarci che il compito dell’arte è “cancellare la lavagna e ridisegnare il mondo”, consegnandocelo rinnovato ogni volta. E che facendo propria questa pratica l’architettura ne esca indiscutibilmente rafforzata".